Paul Auster, gli arabeschi del caso e le ambigue certezze | il manifesto

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«A malincuore ho lasciato tutte le mie storie argute, tutte le mie avventure in luoghi esotici e ho cominciato, lentamente e a fatica, a vuotare la mia mente. Adesso il vuoto è tutto ciò che resta: uno spazio, per quanto piccolo, nel quale tutto quello che succede ha modo di succedere»: il vuoto mentale evocato da Paul Auster in questo brano, tratto dalla raccolta Spazi bianchi del 1979 e incluso in Affrontare la musica (2004), equivale alla tabula rasa che precede l'atto del fare artistico. Viene spontaneo, ora, associarlo al vuoto che lo scrittore americano ha lasciato nei lettori di tutto il mondo, cedendo - la sera del 30 aprile scorso - alla malattia che lo affliggeva.

Più di trenta suoi libri colmano ora questa assenza, pubblicati nel corso di una carriera ultracinquantennale, durante un percorso artistico che ha visto Auster cimentarsi con tutte le forme letterarie possibili, dalla poesia alla scrittura autobiografica, dal romanzo alla short story, dalla biografia alla sceneggiatura, dal saggio critico alla traduzione.

A RATIFICA della sua versatilità di storyteller basterà ricordare come, da giovane, Auster avesse inventato un gioco, Action Baseball, che con un mazzo di 96 carte, un tabellone e delle pedine permetteva ai giocatori di simulare una partita di baseball (Le istruzioni e le carte da ritagliare sono state pubblicate nella raccolta Sbarcare il lunario, pubblicata, come tutte le sue opere, da Einaudi).

Figlio di ebrei di discendenza austriaca, Auster era nato e cresciuto a Newark, nel New Jersey, ma la sua scrittura è intimamente legata alla città di New York, e a Brooklyn in particolare, dove ha abitato fino agli ultimi giorni e dove ha ambientato i racconti della Trilogia che lo ha reso famoso.

Nel 1970, dopo la laurea alla Columbia University, si trasferì in Francia per scrivere poesie e lavorare come traduttore dal francese. Da questo iniziale corpo a corpo con la lingua deriva la sua attenzione quasi beckettiana alla grana delle parole, al ritmo e alla struttura della frase, che lo spingerà a ricercare ossessivamente il termine esatto, essenziale, evitando qualsiasi ridondanza.

A FAR VIRARE i suoi interessi verso la scrittura in prosa fu la morte improvvisa del padre, che gli diede la motivazione per scrivere, nel 1982, L'invenzione della solitudine - un toccante memoir dalla struttura raffinata e complessa, composto da due testi che contengono in germe i temi di quella che sarebbe stata la sua narrativa futura: il tormentato rapporto tra fiction e autobiografia e quindi tra immaginazione e memoria; la stanza vuota - fisica e metafisica - in cui è confinato lo scrittore, metafora della pagina bianca; il rapporto ambivalente tra gli oggetti e le parole deputate a descriverli. Soprattutto, è dall'Invenzione che si dipana il filo rosso di tutta la produzione di Auster, la riflessione sugli arabeschi disegnati dal caso nella vita delle persone, la precarietà capricciosa di ogni singola esistenza, l'esplorazione di tutte le possibilità irrealizzate e le strade non prese, comprese le alternative controfattuali e quelle ucroniche.

SCRITTORE DELLA SOGLIA, costantemente a cavallo tra America e Europa, Auster strizza l'occhio alle sperimentazioni postmoderne ma trae ispirazione dai classici dell'Ottocento americano, soprattutto da Edgar Allan Poe e da Nathaniel Hawthorne, riferimenti essenziali dei suoi primi romanzi, da Moon Palace a Mr. Vertigo.

Per quanto abbia sempre rifiutato ogni associazione con il postmoderno, Auster è una figura di raccordo tra gli scrittori postmodernisti di prima generazione - William Gaddis, Robert Coover, John Barth, Thomas Pynchon, autori di densi romanzi enciclopedici considerati poco accessibili - e una dimensione più spiccatamente affabulatoria, che riesce a catturare l'attenzione del lettore servendosi di generi codificati come la detective story, la fantascienza o il memoir, solo per sovvertirne gli assunti di base.

MESSA INSIEME a metà degli anni Ottanta, la Trilogia di New York si interroga sui limiti del linguaggio, sui paradossi di una scrittura che tenta di descrivere una realtà ormai non più percepita come «realistica», sulla sensazione paranoide associata alla sovrabbondanza di dati e informazioni impossibili da decodificare, insomma sui nodi centrali della riflessione postmoderna; ma lo fa attraverso tre racconti gialli dove il detective, invece di arrivare a una soluzione del mistero, è costretto a confrontarsi con il progressivo ingarbugliamento della situazione, che si rivelerà impossibile da sciogliere.

COME HA SPIEGATO lo stesso Auster in quella approfondita retrospettiva della sua opera che è Una vita in parole, ciò che tutti e tre i racconti hanno in comune è il senso della precarietà, dell'incertezza. E l'essenza del libro è, non a caso, come «imparare a vivere con l'ambiguità».

Punto di svolta e momento di passaggio tra una prima e una seconda fase della scrittura di Auster, la sua seconda trilogia, cominciata nel 2005, affronta il trauma nazionale degli attentati al World Trade Center da tre prospettive diverse.

Il primo romanzo, Follie di Brooklyn, è un inno all'America «innocente» pre-11 settembre: un'opera dalla trama lineare, che si chiude appena quarantasei minuti prima dello schianto del primo aereo, con l'idea che dopo una simile tragedia si finisce per guardare con nostalgia anche a una vita fino a un attimo prima vissuta come insopportabile.

Diversissimo dal primo, Viaggi nello scrittorio trasporta il lettore in una dimensione paranoide e metanarrativa, dove uno scrittore anziano e senza memoria, chiuso (forse imprigionato) in una stanza e costantemente spiato da telecamere, riceve la visita dei personaggi dei suoi romanzi, che lo accusano di averli inviati in missioni pericolose e di avere disposto a suo piacimento delle loro vite.

Il narratore di Uomo nel buio, infine, partendo ancora una volta da un genere codificato come l'ucronia, immagina un'America dove le Torri non sono crollate, ma dove infuria una sanguinosa guerra civile dovuta alla scissione dello Stato di New York dagli altri Stati. Anche in questo caso, sembra affermare Auster, un avvenimento distruttivo come gli attentati dell'11 settembre, se visto da un ipotetico futuro, potrebbe rivelarsi funzionale a preservare l'unione del paese.

SEMPRE, ANCHE NEI TESTI più marcatamente finzionali di Auster, o che riflettono sulla situazione politica, affiorano elementi autobiografici - sotterranei, spesso appena intravisti, altre volte dirompenti. Lo stesso Auster ha parlato della Trilogia di New York come di una «autobiografia ombra», che racconta come sarebbe diventato se non avesse incontrato nel 1981 Siri Hustvedt: il matrimonio con lei - a sua volta romanziera e psichiatra di fama internazionale, «una delle menti migliori» da lui conosciute, «l'intellettuale della famiglia» - è di fondamentale importanza per comprendere la narrativa più recente dello scrittore americano.

Non a caso, nel suo ultimo romanzo, Baumgartner, uscito alla fine del 2023, l'autore ha scelto un punto di vista postumo, immaginando il processo di elaborazione del lutto che sarebbe toccato in sorte alla moglie, dopo la sua scomparsa, ormai consapevolmente prossima. Nella finzione, tuttavia, rovescia le parti: è l'anziano protagonista, Baumgartner, a non riuscire a superare la perdita della moglie. Decide quindi di mettere in ordine i manoscritti incompiuti di lei, che era stata scrittrice e traduttrice.

PER POTER INVENTARE un'ennesima versione della sua vita, ancora una volta lo storyteller opera un doppio ribaltamento - tra io narrante e io narrato, tra moglie e marito; ma alla storia manca l'ultimo atto, l'atto che si è appena compiuto con la sua morte. Come scrive nella poesia intitolata Narrazione, «quello che accade non accadrà mai / e quello che è accaduto / accade nuovamente all'infinito».