Parco giochi con jihad: il 1968 eterno dei rampolli rivoluzionari

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L'accampamento pro Palestina nella University of California Los Angeles (foto Ansa)

Intonano gli stessi canti. Indossano la stessa divisa un po' trendy un po' anti-coloniale. Piangono le stesse isteriche lacrime. Proclamano gli stessi psicotici slogan. Columbia University. UCLA. Sciences Po. La Sapienza. Bologna. Affratellate dal destino assai poco invidiabile di concentrazioni di militanti rivoluzionari, woke, intersezionali, jihadisti coi capelli fucsia, transfemministe che nei recintini di questa Disneyland rivoluzionaria con kefiah e libri di Foucault tra le mani si chinano nella preghiera islamica violando tutti i più elementari precetti della preghiera islamica.

Gente per cui l'islam è soltanto un esotico approdo intellettuale per lenire serate a corto di sesso, l'underground costretto a rimanere tale per mancanza totale di argomentazioni e di capacità e che si aggrappa alla sensazione geopolitica del momento per tentare la scalata all'overground.

Gli ossessionati dai pronomi e da Hezbollah

Insegnava Baudrillard, a proposito dell'America, che essa in certe occasioni appare come un ologramma, una copia originante da nessun originale. Ecco, il moto rivoluzionario da gioco di ruolo di queste masse di foruncolosi ossessionati al contempo dai pronomi e da Hezbollah, dalla decostruzione dei gabinetti distinti per genere e dal considerare lo scempio del 7 ottobre 2023 un atto di legittima resistenza è esattamente quell'ologramma; per loro la resistenza armata, la lotta rivoluzionaria, Hamas, l'Iran, la dottrina islamica, sono soltanto una giocosa e irreale proiezione di una schizofrenia interiore che celebra la propria inadeguatezza esistenziale.

Per una volta si sentono vivi, riconosciuti, figli di una legione in marcia legittimata dagli altisonanti proclami della giustizia sociale e della lotta all'aborrito potere capitalista. Odiano loro stessi, odiano il loro mondo, odiano i loro fallimenti e la loro libertà, odiano la loro inadeguatezza politica, esistenziale, intellettuale, proclamano enfatica la distruzione tagliando il ramo su cui sono appollaiati. Non hanno messo su dei campi di addestramento o di protesta ma un grottesco parco giochi della jihad globale con karaoke antisemita.

Studenti e attivisti partecipano alla preghiera islamica nel campus della George Washington University a Washington (foto Ansa)

Pannocchie vegan per una jihad culinariamente corretta

Strimpellano le chitarrine, Inti Illimani ai tempi Hamas. Falò in cui abbrustoliscono pannocchie vegan, perché va bene la jihad purché sempre culinariamente corretta e arrostiscono tra volute di fumo nero i loro stessi cervelli, sotto la volta di un cielo che preferirebbe se possibile guardare da un'altra parte.

Popolano un orizzonte punteggiato di tende che spuntano come funghi nei giardini di università la cui retta in genere costa 65/70mila dollari annui e per le quali gli studenti finiscono spesso per indebitarsi per tutto il resto della loro vita.

Impediscono ai loro colleghi di seguire le lezioni, di studiare, di apprendere e di interrogarsi intellettualmente, e non lo fanno perché sono i minatori gallesi in lotta contro la Thatcher ma soltanto perché sono dei falliti che non ambiscono a migliorare la loro condizione ma solo a peggiorare, per invidia, quella di chiunque stia meglio di loro.

L'attivismo come professione

Paese meraviglioso quello in cui senza sbottare a ridere ci si può definire attivisti di professione. Consulenti di proteste di piazza. In questo momento, professionisti della rivoluzione, ovvero ruderi umani sputati fuori direttamente dagli anni Settanta, si affollano e si affrettano magari pagati non si sa da chi ma lo si immagina facilmente a prestare la loro preziosa opera intellettuale a favore dei riottosi da Ivy League.

Soffiano sul fuoco, danno consigli, incentivano la lotta. Mentre nell'ombra se la sghignazzano cinesi, iraniani, russi, radicali islamici assortiti, i cui soldi da anni ormai piombano copiosi nelle tasche di certe cattedre di certi atenei e nelle casseforti di certe associazioni.

Definire studenti questi occupanti tumultuanti e giubilanti viene difficile, in primo luogo perché moltissimi di loro non lo sono, come testimoniano gli arresti effettuati dalle varie polizie di ogni latitudine, e poi perché anche quelli che formalmente lo sarebbero di tutto fanno fuorché studiare.

Un'attivista con megafono durante le manifestazioni all'accampamento pro Palestina alla UCLA (foto Ansa)

Un ologramma del Sessantotto

È saltato fuori un bel campionario di miserie umane dal setaccio di quella marmaglia acquitrinosa. Ex terroristi, ex jihadisti, estremisti di sinistra assortiti. Figuriamoci, a chiamarli studenti sono rimasti solo certi fogli di informazione propagandista di sinistra che in loro vedono il sogno di una revanche storico-filosofica.

Simile a una tragica sceneggiatura steampunk, la protesta globale sembra ambire a riprodurre un ologramma del 1968, facendo sbrodolare chi già si sbrodolò per l'originale e chi invece non fece in tempo a perdere tempo direttamente all'epoca. Simile a uno psicodramma, lo show che va in onda quasi tutti i giorni è deprimente assai; cucina tipica palestinese, abborracciate conferenze stampa di occupanti dei rettorati che lamentano la fame e la sete, manco stessero sulle alture di Masada, si fanno ritrarre come guerriglieri di Settembre Nero ma dispersi in un concerto dei Porcupine Tree e sfoggiano stili di abbigliamento che a Gaza non li farebbero durare più di sette minuti, hipster che sognano la Rivoluzione d'Ottobre e il BigMac Menu, leggendosi Judith Butler tra loro e facendo gli occhi a cuoricino davanti quelle supercazzole senza senso alcuno.

Cattivi maestri on tour

Ci furono nel 1968 e negli anni Settanta, ci sono pure oggi. Cattivi maestri che si sbrodolano come gli smerda-tori stigmatizzati da William Burroughs. Gente che non avendo il coraggio di esercitare direttamente la violenza, la teorizza, ne predica in maniera convoluta e contorta, tanto per precostituirsi una via di fuga quando il tempo dovesse volgere al brutto, la forza e la scintillante bellezza rivoluzionaria.

Ma se almeno i cattivi maestri di un tempo avevano qualche rigore e persino qualche oscura dignità, quelli attuali sono come i loro aficionados: delle tragiche macchiette. Ma ciò non li giustifica, anzi; è una aggravante. Perché le loro teoriche della violenza diventano ancora più caotiche, irrazionali, deflagranti, inconsapevoli e proprio per questo non arrestabili una volta messe in moto.

Ecco Judith Butler in tour, con lezioni tipo "Fascist passions".  A Bologna, poi a Roma. Riverita, coccolata, amatissima dai katanga della supercazzola. La Butler è una cattivissima maestra, cattivissima soprattutto perché le sue agghiaccianti elucubrazioni concettuali contro qualunque senso di oggettività vengono condite con degli arzigogoli bizantini incomprensibili.

La Butler è una che fa giri concettuali talmente larghi che parte volendo concettualmente sfasciare tutto e poi finisce per legittimare la funzione della censura, di quella peggiore, di quella abissale, di quella ontologica, come fa in Parole che provocano'. La sua decostruzione smantella a parole tutto e smantellando tutto produce più limiti ghetti barriere norme regole di quelle del sistema oppressivo che vorrebbe abbattere o delegittimare. Il pensiero della Butler è oppressione feroce, insensata, che non può postulare alcun riconoscimento dialettico dell'altro.

Judith Butler e i jihadisti del gender

Non stupisce vedere i jihadisti del gender recludersi nelle Liberated Zones, con Hakim Bey che si rigira frullando nella tomba, dietro recintini e barriere. Questa roba è epitome del confine, dell'esclusione, della violenza che disgrega e segrega proprio per affermare la propria esistenza e la propria identità sballottata tra i marosi della decostruzione. Butler ha celebrato nel corso degli anni Hezbollah e Hamas. Lo fece nel 2006, nella famosa prolusione in cui definiva il jihadismo una forma di resistenza e di lotta sociale, includendo entrambi i movimenti estremisti nel perimetro della sinistra globale, e di recente è tornata ad abbellire la carneficina del 7 ottobre 2023.

Non stupisce che Michela Murgia sostenesse senza tanti giri di parole Hamas. L'ombra e lo sfacelo che le anima, animava nel caso della Murgia, è la stessa: un odio riprovevole, un disagio immane e immenso, la trasformazione della affermazione dei presunti e fantasiosi diritti in guerra totale. Hanno predicato e predicano odio, risentimento, ferocia, desolazione, travisandosi dietro gli arlecchineschi colori sgargianti dell'amore, della eguaglianza e dei diritti.

Un'immagine dalle proteste della Rete per la Palestina a Napoli lo scorso 25 aprile (foto Ansa)

Mob culture e libertà di espressione

Ed eccoci all'Università Statale di Milano che annulla un convegno su Israele perché la Digos avrebbe, condizionale assai d'obbligo visto che la Questura non conferma, informato i vertici dell'Ateneo della possibilità di incidenti e scontri cagionati dalla furia anti-israeliana dei soliti noti di collettivi e centri sociali. Notevolissimo esempio di come e quanto lo squadrismo intimidatorio dei nuovi rivoluzionari sia efficace.

Efficace perché dall'altra parte vi sono istituzioni e vertici privi di spina dorsale che si fanno dettare l'agenda dai violenti, dai rischi potenziali, dalle minacce. E violenza non è solo il materiale esercizio della violenza ma pure la minaccia di usare o scatenare violenza.

I mafiosi mica ammazzano, gambizzano o bruciano attività commerciali sempre. In tanti altri casi costruiscono e animano un clima plumbeo di minaccia e di ricatto, di estorsione, facendo leva sulla paura, sulla intimidazione, ti mettono con le spalle al muro agitando la possibilità della violenza.

Qualcuno direbbe che è libertà di espressione minacciare qualcuno di gambizzarlo se non paga il pizzo? Non credo. Non almeno una persona vagamente sana di mente. Ecco, si cominci a ragionare negli stessi termini quando ci si confronta con gente che minaccia in maniera credibile assai la violenza per far annullare eventi, convegni, incontri, presentazioni.