Se sul nuovo Patto Ue l'Italia va contromano

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L'astensione o opposizione quasi unanime della delegazione italiana al Parlamento Europeo sul nuovo Patto di Stabilità è la prova di un grave difetto di responsabilità e lungimiranza della nostra classe politica, più attenta a valutare i ritorni elettorali alle prossime elezioni che a rafforzare la reputazione internazionale del paese e la condivisione della leadership europea. Il nuovo patto è certamente criticabile, soprattutto per ciò che riguarda la trasparenza e la semplicità delle procedure, ma è, con tutta evidenza, un passo inevitabile e necessario nel percorso di integrazione dell'Unione Europea.

Occorre prima di tutto sgombrare il campo da alcuni equivoci che servono solo alla propaganda politica. L'oggetto del dibattito che ha dato luogo al nuovo patto non sono le regole di Maastricht, cioè il fatto che i paesi membri dell'UE debbano, "a regime", contenere il debito pubblico al di sotto del 60% e il disavanzo al 3%. L'oggetto riguarda piuttosto gli strumenti per rendere efficace, cioè effettivo e flessibile, il percorso di contenimento degli squilibri fiscali a livello nazionale. I punti essenziali possono essere riassunti nel modo seguente. La traiettoria di rientro da deficit e debiti eccessivi non è uniforme ma basato sulla situazione di ogni paese membro. Il tempo concesso per arrivare a soddisfare i limiti di disavanzo va dai quattro ai sette anni, a condizione che siano promossi investimenti e politiche economiche virtuose, con uno sconto per i maggiori oneri per interessi dovuti alle politiche restrittive della BCE. L'indicatore principale per monitorare il percorso di consolidamento è la spesa pubblica al netto degli interessi e delle componenti cicliche per ammortizzatori sociali.

La parte più controversa riguarda le clausole di "salvaguardia", volute dai paesi frugali. Per i paesi ad alto debito esse consistono in una riduzione minima del debito dell'uno per cento annuo e, per tutti, un margine di disavanzo strutturale inferiore al 3% alla fine del percorso di aggiustamento in modo da far fronte a condizioni avverse e inaspettate. Dunque, l'aggiustamento fiscale che dovrà affrontare l'Italia sarà importante, ma i margini di flessibilità e i tempi di attuazione più diluiti. È un compromesso peggiorativo? I dubbi sono tutti leciti e giustificati. Si può obiettare sulla scelta dei meccanismi di monitoraggio, la complessità della «governance» e la coesistenza di regole rigide e modulate in base alle condizioni dei singoli paesi. L'Italia avrebbe preferito fare a meno delle clausole di salvaguardia, ma non esistevano margini per ottenere questo risultato, anche perché le regole fiscali sono state sistematicamente violate anche negli anni in cui ciò non era giustificato da condizioni economiche sfavorevoli.

Tutti i paesi membri, anche i meno frugali (tranne l'Italia? ), riconoscono che, dopo le emergenze degli anni scorsi, il percorso di stabilizzazione delle finanze pubbliche debba essere credibile, soprattutto se vogliamo procedere verso una maggiore integrazione economica e politica, condividere i rischi dovuti a shock asimmetrici e avere lo spazio fiscale per affrontare le spese comuni per la transizione energetica, la difesa e l'autonomia strategica. Altrimenti aumenta la sfiducia reciproca e la resistenza ad ogni meccanismo assicurativo, come è stato il PNRR. Ricordiamo che la crisi finanziaria e la pandemia hanno contribuito ad una crescita del debito pubblico italiano dal 100 al 150 per cento circa del PIL, e che, grazie all'azione protettiva della BCE e alle garanzie implicite che derivano dall'appartenenza all'UME, ciò è avvenuto senza subire aumenti eccessivi dell'inflazione e dei tassi d'interesse o attacchi speculativi. Ma non possiamo delegare alla banca centrale la gestione di tanti debiti nazionali. A oltre un anno dalla fine della pandemia, l'ISTAT certifica un disavanzo fiscale superiore al 7% del PIL, un valore che appare rischioso indipendentemente dai vincoli europei e che deriva da aumenti di spesa correnti e dal finanziamento di un bonus fiscale concepito con criteri spericolati e irragionevoli. Solo questa misura avrà un impatto sul debito pari a circa l'1, 8% del PIL nei prossimi tre anni, secondo l'UPB.

Oggi il nostro governo si trova nella situazione difficile di contenere il disavanzo e, nello stesso tempo, non smentire la promessa di rinnovare la riduzione e rimodulazione delle aliquote fiscali, gli sgravi contributivi e i regimi forfetari per i lavoratori autonomi, con un costo che potrebbe superare 16 miliardi. Qualunque sia l'opinione che possiamo avere sulla necessità di tali misure, è evidente che una politica di riduzione del carico fiscale fatta a debito, anziché finanziata da una riduzione delle spese, significa rafforzare l'ipotesi che l'Italia non ha alcuna intenzione di procedere sulla strada della riduzione degli squilibri fiscali, anche quando questi non sono giustificati da investimenti produttivi o eventi eccezionali. La delegittimazione dell'operato del nostro ministro dell'Economia al tavolo negoziale da parte dei parlamentari europei dei partiti di maggioranza non fa che confermare questa ipotesi.