Disturbi psichiatrici gravi, i percorsi di riabilitazione dopo il ricovero in ospedale: che cosa sono e dove si fanno

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diChiara Daina

Il paziente ha la possibilità di seguire un percorso di recupero in comunità residenziali, con l'obiettivo di riacquistare autonomia e qualità di vita. Le diverse tipologie delle strutture e come vi si accede 

Una persona che finisce in ospedale per disturbo psichiatrico grave (come ad esempio un primo episodio psicotico con distacco dalla realtà) al termine del ricovero può essere affidata temporaneamente a una struttura residenziale riabilitativa. Ma solo in determinate circostanze. 

«La prima domanda che l'equipe del centro di salute mentale deve porsi è se la persona possa recuperare le sue abilità e suoi obiettivi di vita stando al proprio domicilio, con il supporto familiare e dei servizi territoriali. Se questo non è possibile, allora si prende in considerazione il trattamento in comunità residenziale» chiarisce Gian Maria Galeazzi, professore di psichiatria all'università di Modena e Reggio Emilia e direttore del dipartimento di salute mentale dell'Ausl di Reggio Emilia. 

Primo obiettivo: il recupero di autonomia e qualità di vita

«Il percorso deve essere orientato alla "recovery" della persona, ovvero al miglior recupero possibile della sua autonomia e qualità di vita, senza che questo preveda per forza il raggiungimento della guarigione clinica dalla patologia. È prioritario, dunque, consentire alla persona di riprendere in mano i progetti e il suo futuro, di tornare ad avere relazioni affettive, di integrarsi nella comunità e di avere diritto a una casa. Anche chi soffre di un disturbo mentale deve poter scegliere dove e con chi vivere e non essere segregato in ambienti iperprotettivi che lo rendono passivo», sottolinea lo psichiatra Roberto Mezzina, vicepresidente della Federazione mondiale per la salute mondiale e dell'International mental health collaborating network e da qualche mese consulente del servizio sanitario del Regno Unito per la riforma della salute mentale. 

Le strutture: i tre livelli

Le strutture psichiatriche si distinguono in tre categorie. Le prime, ad alta intensità riabilitativa, descrive Galeazzi, «servono a stabilizzare le condizioni psicopatologiche attraverso terapia farmacologica, colloqui con lo psichiatra, psicoterapia e gruppi psicoeducativi per imparare ad affrontare le ricadute, ad assumere correttamente i farmaci, a mangiare sano, a non usare droghe». La durata, indica un Accordo Stato-Regioni-enti locali del 2013, non deve superare i 3 mesi nella fase post critica e i 18 mesi nelle cronicità.

Primo livello: ad alta intensità riabilitativa

«Il trattamento intensivo è indicato quando persistono sintomi rilevanti, quali allucinazioni, deliri e comportamenti inadeguati, quando il paziente non riesce a prendersi cura di sé, cioè non si alza dal letto, non si veste, lava, né si fa da mangiare, smette di lavorare, non ha più un tetto dove stare o una rete di parenti e amici a cui appoggiarsi e nel territorio in cui vive i servizi di assistenza sociosanitaria e di volontariato sono insufficienti rispetto ai suoi bisogni» spiega Galeazzi. 

Secondo livello: estensiva

La seconda tipologia residenziale è quella estensiva (per massimo di tre anni). «È rivolta a chi continua ad avere difficoltà ad autogestirsi e nei rapporti sociali. L'utente è coinvolto in attività di risocializzazione e laboratori terapeutici di arte, scrittura, teatro, sport, musica, ortocultura e altri — continua Galeazzi —. Per facilitare l'inserimento lavorativo la struttura è tenuta a proporre borse di lavoro o tirocini formativi fuori o in sede. Appena possibile è importante favorire il passaggio della persona verso piccoli nuclei di convivenza, come gruppi appartamento e cohousing, con la presenza di infermieri, educatori e operatori sociosanitari, per 24 ore, 12 ore o 6 ore oppure su richiesta, dove la persona possa avere privacy, decidere quando mangiare e ricevere visite e possa prepararsi a una vita indipendente». 

Terzo livello: «abitare assistito»

Le forme di «abitare assistito» costituiscono il terzo livello riabilitativo e in oltre la metà delle regioni si sta sperimentando attraverso il «budget di salute», l'insieme delle risorse economiche e professionali messe dall'individuo (e dalla famiglia), dall'azienda sanitaria, dai servizi sociali del Comune e dal terzo settore, per sviluppare un piano terapeutico personalizzato (che determina la durata del soggiorno) sottoscritto dal paziente. «Uno strumento che supera il sistema delle rette e del pacchetto di servizi standardizzati predefiniti e risponde ai bisogni individuali dell'utente, che verrà coinvolto nelle scelte che lo riguardano, aumentando fiducia in sé e senso di autoefficacia. Vuol dire, anche, che potrà essere aiutato al reintegro nel mercato "normale" del lavoro» evidenzia Mezzina.

Quali sono i tempi medi di permanenza

La durata media nazionale di permanenza nelle residenze psichiatriche nel 2022 era di 1.086 giorni (3 anni), in netto aumento rispetto al 2015 (756). Con valori molto diversi tra le regioni: da 140 giorni in Molise a 2646 in Toscana.

«Questa forte variabilità suggerisce l'uso differente che le Regioni fanno di queste strutture e le molteplici declinazioni che hanno assunto in funzione dell'autonomia organizzativa regionale. In Emilia Romagna, ad esempio, il livello intensivo è di massimo 60 giorni. Quanto più è lunga la permanenza tanto più è alto il rischio di una regressione della malattia e dipendenza dell'utente dalla struttura» dice Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica.

Le criticità

Starace ha coordinato un Rapporto sulla residenzialità psichiatrica - prodotto da un gruppo di lavoro nato in seno al Consiglio superiore di sanità (di cui fa parte lo stesso Mezzina) e pubblicato dall'Istituto superiore di sanità nel 2023 - che solleva le principali criticità legate alle strutture riabilitative: permanenze eccessive, basso tasso di occupazione lavorativa degli utenti, isolamento sociale e scarsità di attività mirate all'autonomia

Nel rapporto si raccomanda alle autorità sanitarie di puntare alla progressiva emancipazione delle persone con problemi di salute mentale attraverso un potenziamento delle soluzioni abitative assistite, in contesti scelti dalla persona, con disponibilità, quando necessario, di un sostegno per pulizie, pasti, spesa e coinvolgimento attivo sul territorio.

Non solo assistenza, ma reintegrazione sociale

«L'obiettivo non è solo assistere, ma abilitare la persona al reintegro in comunità» rimarca Mezzina. Questo modello, suggerisce il documento, dovrebbe gradualmente sostituire le residenze «estensive» (da limitare a target specifici: disturbi alimentari, dipendenze in comorbidità con disturbi psichiatrici gravi, disturbi della personalità). «L'accesso alla casa è un diritto fondamentale anche per le persone con disabilità, che va assicurato in sinergia con i servizi sociali e il terzo settore», ricorda Mezzina.

Pazienti ospiti di famiglie «formate» in nove città 

Trascorrere un periodo di tempo all'interno di una famiglia diversa da quella di origine per recuperare il proprio benessere: l'inserimento eterofamiliare supportato di adulti (Iesa), così si chiama, è una forma di ospitalità a scopo terapeutico e riabilitativo per pazienti psichiatrici, alternativa al ricovero in comunità residenziale. Nel 2023 è stata inserita nella lista delle buone pratiche Unesco per la salvaguardia del patrimonio immateriale dell'umanità. 

Inserimento eterofamiliare

In Italia l'inserimento eterofamiliare è stato introdotto nell'Asl Torino 3 nel 1997. «Da allora abbiamo abilitato circa 500 famiglie. In questo momento 80 sono quelle disposte ad accogliere, di cui 50 già impegnate» dice Gianfranco Aluffi, direttore scientifico del servizio dell'Asl Torino 3, centro esperto della regione Piemonte. «Il metodo Iesa oggi è stato adottato dall'Asl Torino 4 e da altre 9 aziende sanitarie: di Oristano, Caserta, Modena, Bologna, Firenze, Barletta, Treviso, Bergamo e Monza» aggiunge Aluffi. Le famiglie ospitanti vengono selezionate (i requisiti fondamentali sono avere una stanza in più e un po' di tempo libero) e formate su come gestire gli aspetti critici.

«Gli ospiti firmano un contratto e versano alla famiglia una quota di mille euro circa al mese. L'ospitalità può essere part-time, nel fine settimana o qualche ora al giorno, oppure a tempo pieno» spiega il direttore. Con benefici straordinari: «Dopo un anno la persona riduce di quasi il 20% l'uso di ansiolitici; il numero medio di ricoveri si dimezza, da 2,5 a 1,3, e la durata scende da 120 giorni a 22. Si assiste a un buon recupero delle funzioni sociali e personali, tanto che molti di loro poi vanno a vivere da soli, c'è chi si diploma e chi riesce a prendere la patente per il camion. L'inserimento eterofamiliare, inoltre, contrasta i pregiudizi sulla malattia mentale e al Servizio sanitario costa un terzo rispetto all'inserimento in struttura. Se la persona non ha soldi, paga l'Asl o il Comune» conclude Aluffi. 

Mini alloggi a schiera con giardino e assistenza 

In tutto il Friuli Venezia Giulia non esistono comunità residenziali psichiatriche. Un'eredità del modello Basaglia. «Le persone in crisi acuta vengono accolte nei centri di salute mentale, aperti h24, 7 giorni su 7, ad accesso diretto e dotati di 6-8 posti letto. Il tempo medio di permanenza è di 10-14 giorni — spiega Roberto Mezzina, ex direttore del Dipartimento di salute mentale triestino, che ha fatto parte dell'equipe di Basaglia —. Per evitare l'istituzionalizzazione, i gruppi appartamento sono massimo di cinque persone. Un'esperienza innovativa sono i "cluster housing", mini alloggi a schiera con giardino rivolti a coppie e a chi vuole abitare da solo, con assistenza a domicilio flessibile, calibrata sui bisogni di ciascuno. La persona è titolare del proprio contratto e di un budget di salute». 

Pietro Pellegrini, direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Ausl di Parma, è al lavoro per riconvertire le residenze in «servizi di comunità e prossimità» con disponibilità di alloggi privati: «Si tratta di punti di riferimento attivi nelle 24 ore per organizzare insieme alla persona e alla famiglia gli interventi di assistenza domiciliare più adatti, a casa propria, in altri alloggi indipendenti o in cohousing, attivando tutti gli strumenti di welfare e abbandonando il modello alberghiero. Già oggi — sottolinea — il 97% dei nostri utenti vive in una casa. Tutti, volendo, possono essere gestiti al domicilio. Se la persona viene resa protagonista della sua vita, con dei diritti e dei doveri, fa ciò che gli piace, ha delle prospettive, delle buone relazioni e un reddito autonomo, migliora i sintomi e riduce i comportamenti disfunzionali. La convivenza diventa difficile quando la persona resta su una poltrona a non fare niente. Le pillole da sole non curano la malattia mentale». 

Nel distretto Valli Taro e Ceno a ottobre è nato il primo «servizio di comunità e prossimità» nel centro del paese di Fornovo, in cogestione con il consorzio di cooperative Fantasia: c'è un hub di assistenza e vicino un immobile trasformato in bar e mensa, aperti al pubblico con adiacenti quattro alloggi. 

Comunità «diffusa»,  partecipano anche le parrocchie 

L'Asl Napoli 2 dal 2019 ha chiuso 11 residenze di riabilitazione psichiatrica di livello intensivo ed estensivo. «Al momento ne abbiamo mantenute 3 e abbiamo deciso di aprirle al territorio: gli ospiti sviluppano il loro progetto terapeutico partecipando ad attività non dentro alla comunità residenziale ma fuori, grazie alla costruzione di una rete di enti pubblici e privati, parrocchie incluse, che offrono laboratori e posti di lavoro» spiega Carmen Cimmino, responsabile della residenzialità e dei centri diurni dell'Asl». 

«C'è chi, dopo aver seguito un corso di biblioterapia, si occupa dell'accoglienza in biblioteca, chi è impegnato nella redazione di un giornale, in falegnameria, in attività di teatro. La media di permanenza nelle comunità intensive è di 14 mesi, in quelle estensive di 8. Quando si fa un inserimento, bisogna subito programmare l'uscita dalla residenza con gli obiettivi da raggiungere». 

Nella terapia, coinvolti parenti e amici

Il dipartimento di salute mentale di Caltagirone e Palagonia (Catania) ha quasi azzerato i ricoveri nelle strutture residenziali. «Dal 2015 abbiamo adottato un metodo che aiuta il nucleo familiare a costruire un senso alla crisi e a trovare le risorse interiori per affrontarlo», dice il direttore, Raffaele Barone.

Il primo approccio è il dialogo aperto. «In caso di psicosi, autolesionismo, dipendenze, si organizza un ciclo di incontri con la persona, la famiglia ed eventuali amici per fare emergere preoccupazioni, emozioni e pensieri, e valorizzare aspetti positivi e capacità utili a gestire la relazione con la persona in crisi».

Il secondo strumento sono i gruppi di psicoanalisi multifamiliare finalizzati a evidenziare l'interdipendenza tra patologia ed episodi traumatici del passato. Infine, la comunità terapeutica democratica: incontri settimanali a scopo risocializzante per chi ha gravi disturbi di personalità.

4 maggio 2024

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